SE LA CACCIA FOSSE UN LAVORO

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SE LA CACCIA FOSSE UN LAVORO –

di Filippo Schillaci

Nel novembre 2001 l’allora responsabile regionale umbro delle guardie giurate del WWF Sauro Presenzini, all’indomani di una impressionante serie di incidenti di caccia con esito mortale verificatisi in quella regione denunciò fermamente la caccia come problema di ordine pubblico. Gli rispose, a sostegno delle posizioni dei cacciatori, l’assessore al bilancio del comune di Perugia, Fabio Faina, cacciatore egli stesso, dichiarando che i cacciatori: «non sparano all’impazzata ma seguono regole di comportamento estremamente precise» e che «la percentuale degli incidenti, rispetto al numero dei partecipanti alle battute, è irrisoria» (1). Queste dichiarazioni erano fatte con riferimento alla caccia al cinghiale e alla situazione umbra, tuttavia non c’è dubbio che egli intendesse dare a esse validità generale. Scopo di questo articolo è quantificare la pretesa “irrisorietà” degli incidenti di caccia attraverso un confronto con un diverso contesto, quello degli incidenti sul lavoro, nonché confrontare il concetto di sicurezza e prevenzione quale è affrontato a livello legislativo nei due diversi contesti.

  1. Definizione dell’attività venatoria dal punto di vista della sicurezza

Cominciamo col dare una definizione dell’attività venatoria (la quale, notiamolo esplicitamente, per le circostanze in cui si svolge è cosa ben diversa dallo sport del tiro, sia a volo che a bersaglio fisso) osservata dal punto di vista della sicurezza. Essa consiste nel libero uso di armi da fuoco in luoghi non protetti, siano essi pubblici o privati. Notiamo a quest’ultimo proposito che la legislazione italiana (art. 842 C.C.) consente di svolgere tale attività perfino nelle altrui proprietà private a prescindere dal consenso del legittimo proprietario (cosa quest’ultima già da tempo condannata, con riferimento alla Francia, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo). Luoghi, in altre parole, in cui chiunque può trovarsi a transitare in qualsiasi momento. La sua principale e intrinseca caratteristica è pertanto la totale promiscuità di spazi con le altre attività umane, sia lavorative (agricoltura e silvicoltura innanzi tutto) che ludiche (escursionismo ecc.). Notiamo anche che coloro che esercitano tale attività, benché debbano superare a tale scopo appositi esami, null’altro possono essere considerati nell’uso delle armi da fuoco, che dei dilettanti.

  1. Si muore più di caccia o di lavoro?

Si farà riferimento nel seguito al 2001 in quanto, con riferimento agli incidenti di caccia, sono disponibili per quell’anno dati rilevati da una fonte sicuramente attendibile e non di parte quale è l’EURISPES (2).

In tale anno dunque si verificarono 1.366 incidenti mortali sul lavoro (fonte: INAIL) mentre il totale degli occupati era di 21.514.000 (fonte: ISTAT). Considerando 20 giornate lavorative di 8 ore al mese e 11 mesi lavorativi all’anno per ciascun lavoratore si ottiene un totale di 4.733.080.000 giornate lavorative effettuate.

Nella stagione venatoria 2001/2002 vi sono stati 47 incidenti mortali di caccia (fonte: EURISPES) a fronte di un numero di cacciatori pari a 791.848 unità (Fonte: ISTAT) (3). Il numero massimo di giornate di caccia disponibili (tre a settimana per 5 mesi) era di 66 per ciascun cacciatore. Ipotizzando che ciascuno di essi abbia sfruttato integralmente le giornate di caccia a sua disposizione otteniamo un numero totale di giornate di caccia effettuate pari a 52.261.968. Al fine di poter effettuare un raffronto omogeneo dobbiamo ipotizzare però che giornata di caccia e giornata lavorativa abbiano l’identica durata di 8 ore, il che ci pare ipotesi non realistica. Essendo difficilmente quantificabile il dato “durata media della giornata di caccia” intendendo come tale il periodo di tempo che il cacciatore trascorre nel cosiddetto “atteggiamento di caccia” assumeremo l’ipotesi, che riteniamo non molto lontana dal vero, di una durata media di 4 ore. Pertanto assumeremo nel calcolo seguente l’equivalenza: 1 giornata lavorativa = 2 giornate di caccia.

Detto ciò si ottiene che si ha un incidente mortale ogni 3.464.919 giornate lavorative e un incidente mortale ogni 555.978 giornate di caccia. Ne risulta, dal rapporto fra le due ultime cifre, che si muore di caccia 6.23 volte più frequentemente che sul lavoro.

E’ necessario aggiungere qualche considerazione in merito all’ipotesi fatta sul numero di giornate di caccia, dato cruciale nel determinare il valore del risultato finale del calcolo e pertanto il modo in cui esso deve essere interpretato. Ci è stato fatto da più parti notare che tale ipotesi è irrealistica in quanto palesemente sovradimensionata rispetto alla realtà e che è ben più verosimile supporre che il numero di giornate di caccia settimanali per ciascun cacciatore non sia superiore a una o due. Questa obiezione è esatta (4). Il che implica che dobbiamo realisticamente stimare un numero di giornate di caccia pari a uno o al più due  terzi di quelle calcolate, non di più. Questa stima farebbe sì che il numero di vittime vada diviso per un numero minore di giornate di caccia, e avrebbe come conseguenza che la frequenza di incidenti mortali nella caccia risultasse ancora maggiore. Il valore di 6.23 sopra trovato del rapporto fra le frequenze di eventi mortali è pertanto da intendersi come una stima minimale e l’affermazione conclusiva del precedente capoverso va più realisticamente corretta affermando dunque che si muore di caccia almeno 6.23 volte più frequentemente che sul lavoro, fermo restando che il valore reale è da intendersi sensibilmente superiore. Quanto superiore? Non riteniamo necessario approfondire ulteriormente questi calcoli ritenendo il risultato raggiunto già di per sé sufficiente a giustificare le considerazioni seguenti.

  1. Sicurezza e prevenzione nelle discipline del lavoro e dell’attività venatoria.

La storia della legislazione in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro comincia in Italia nel 1898 con una normativa che stabilisce per il datore di lavoro l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa nei confronti del lavoratore. L’ottica in cui veniva affrontata la questione era pertanto a quel tempo puramente risarcitoria. Era del tutto assente il concetto di prevenzione.

La successiva evoluzione legislativa ha portato oggi a una regolamentazione costituita da un insieme piuttosto articolato di normative (non esiste a tutt’oggi un testo unico) la cui punta più avanzata è il D.L. 626/94, un lungo e dettagliato testo che definisce norme capillari e precise in materia e in particolare stabilisce, a carico di tutti i soggetti coinvolti, una serie di obblighi comportamentali atti a conseguire l’obiettivo della prevenzione, la quale è oggi, come nota Antonio Moccaldi, Direttore Generale dell’ISPESL, il concetto primario su cui si basa la vigente legislazione (e la conseguente azione) in materia di sicurezza sul lavoro. Del tutto superata è pertanto l’originaria ottica risarcitoria: prevenire il verificarsi dell’evento negativo piuttosto che concepirlo come fatalità, lasciare che accada e risarcire a posteriori il danno.

L’art. 2 lettera g) del D.L. 626/94 definisce “prevenzione” «il complesso delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno». Sottolineiamo esplicitamente l’attenzione estesa  non soltanto all’ambiente lavorativo ma anche all’ambiente esterno a esso e in particolare alla popolazione. Su questo concetto torna l’art. 4 comma 5 lettera n) ponendolo come obbligo del datore di lavoro.

E’ importante aggiungere inoltre che il D.L. 626/94 è stato riconosciuto successivamente (Art. 1 del D.L. 242/96) inadeguato alle «particolari esigenze connesse al servizio espletato» nell’ambito di alcuni contesti lavorativi, fra cui quelli «delle Forze armate e di polizia, (…) delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle (…) con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica». Tali contesti era previsto nel predetto D.L. 242/96 che si dovessero regolamentare a parte mediante specifici Decreti Interministeriali. Ciò è stato fatto, alla data del giugno 2003, fra i contesti sopra citati, solo per la Guardia di Finanza e per le strutture giudiziarie e penitenziarie, il che impedisce ogni ulteriore approfondimento in merito alla natura delle «particolari esigenze» menzionate. Sottolineiamo comunque come si tratti di contesti che, per loro intrinseca natura, implicano l’uso di armi da fuoco in condizioni non a priori prevedibili e controllabili, esattamente come avviene nell’esercizio della caccia (5).

Soffermiamoci ora sul D.L. 626/94 ed esaminiamone gli elementi fondamentali.

1) L’obbligo di programmazione della prevenzione. Il datore di lavoro deve stabilire una scala di priorità degli interventi necessari a prevenire gli infortuni.

2) La identificazione delle procedure, ovvero mettere per iscritto attraverso quali procedure ciascuna impresa può essere messa in condizione di raggiungere accettabili condizioni di prevenzione. E’ questo il cosiddetto Documento di valutazione dei rischi,

3) L’informazione. Ovunque esista una fonte di pericolo essa deve essere opportunamente segnalata mediante segnaletica o etichettatura, l’una e l’altra a loro volta normate.

4) La formazione. Tutti i soggetti coinvolti devono periodicamente esservi sottoposti.

5) L’istituzione di figure specifiche rivolte al raggiungimento e alla tutela della prevenzione (Medico competente, Servizio di Prevenzione e Protezione, ecc.).

6) L’estensione della sfera dei soggetti beneficiari del diritto alla sicurezza. La legge tutela non solo i lavoratori ma anche altri soggetti, qualora riconosciuti esposti a rischio.

La norma prevede in particolare tre categorie di funzioni fondamentali e all’interno di ciascuna di esse delle ben precise figure di riferimento, che riassumiamo nella seguente tabella…

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